Ugo Levita
Se c’è una pittura che – a dispetto della solo apparente oggettività della rappresentazione – rifiuta di essere “capita”, nel senso illuministico del termine, quella è la pittura di Ugo Levita. Quasi per paradosso, ma un paradosso proprio non è, si tratta di pittura “astratta”, se con ciò si intenda l’astrazione da una realtà da descrivere, da inserire in un contesto sociale, in definitiva da narrare. Come i dipinti che la critica e la storiografia definiscono astratti, ai quali peraltro è legata da una piramide parentale che ha vertice nel Simbolismo, il solo stato d’animo che accetta nell’approccio è quello che ne vuole cogliere la forza evocativa. Non trasmette messaggi intelleggibili, men che meno racconta storie, né comunica idee o atmosfere. Rapisce l’osservatore nella sua temperie magica, metafisica, onirica, lo istruisce al disincanto del mondo.
È arduo, quindi, sfogliare l’atlante cosmico dell’opera di Levita nel tentativo di distillare pensieri ordinati. I suoi dipinti sono – in molti capi appaiono, pure – galassie che pullulano di elementi diversi, monadi neoplatoniche portatrici di tanti significanti, chiamati a contribuire alla definizione di un complesso significato. E nel mezzo, sempre, sta l’uomo, il deus, la “monade delle monadi”, con Sinesio di Cirene. Il deus ex machina, che nella tragedia greca – e non citiamo a caso il mondo del teatro, l’opera di Levita incrocia spesso soluzioni scenografiche – viene calato sulla scena per risolvere una situazione intricata.
Mai rappresentata nella sua interezza, la figura quasi sempre centrale non sta lì a rappresentare sé stessa: è un oggetto inserito nel kaos, è il “motore immobile” nel divenire dell’Universo. Cosa cerca? Cerca risposte che non vuole trovare, per continuare a cercare…
Massimo Mattioli
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